sabato 6 gennaio 2024

Pasquale VIVOLO


Il campionato, alla fine degli anni ‘40, assomiglia parecchio a una grande Legione Straniera e anche i campioni nostrani più genuini, faticano ad affermarsi: uno di questi è Pasquale Vivolo da Brusciano, provincia di Napoli. La Cremonese ha fiducia in questo ragazzo di tecnicamente molto dotato, poco più che ventenne, e nel 1948 gli dà spazio. Alla Juventus lo tengono subito d’occhio e, nell’estate del 1949, il ragazzo sbarca a Torino con prospettive, a dire il vero, non esaltanti: davanti a lui ci sono autentici campioni come Præst, Hansen, Boniperti e Muccinelli, e non è facile farsi largo.Ma Vivolo ha un carattere d’oro e un talento purissimo: si fa voler bene e sa tenersi pronto ogni volta che il mister lo chiama. Così, da attaccante esterno o più spesso da centravanti puro, colleziona 10 presenze e 1 rete nell’anno del debutto, che è anche quello del ritorno dello scudetto, dopo la bellezza di quindici anni.
Vivolo non è un primattore, ma si capisce che ha la stoffa e viene confermato. E le presenze salgono a 16 nel 1950-51, con 2 goal all’attivo.
Ma è il campionato 1951-52 quello della piena affermazione del ragazzo napoletano. Complici alcuni infortuni dei titolari, Pasquale gioca 19 partite e segna ben 12 reti, con una media pazzesca, ben oltre mezzo goal a gara. Un contributo, stavolta, davvero decisivo alla conquista del nono scudetto, il secondo per Vivolo.
Che si conferma un grande bomber di razza anche l’anno successivo, secondo cannoniere della squadra con ben 16 reti in 22 partite. Nell’estate del 1953 passa alla Lazio e continua a segnare a ritmi impressionanti, meritandosi anche qualche gettone con la Nazionale.
Lusinghiero il suo bilancio juventino: in 4 stagioni, 2 scudetti, 67 partite e 31 reti.

BRUNO ROGHI, DA “LA STORIA DELLA JUVENTUS”
Ci sono molti modi per presentarsi alla ribalta azzurra nel giorno dell’esordio. Vanno dalla timidezza all’arroganza, dalla sicumera a timor panico, dal desiderio di passare inosservati, alla volontà di fare subito colpo. Naturalmente dipende dai caratteri. Soprattutto dipende dal giuoco di quei complessi psicologici che vanno sotto il nome astratto e generico di emotività.
Ci sono pezzi di giovanotti che fischietterebbero un’arietta popolare davanti alle corna di un toro inferocito e tremano come budini davanti alle maniche della maglia azzurra. Altri sono leoni in partita di campionato e agnelli in partita internazionale. Il «disastro Faroppa» – un portiere dei tempi andati che, immesso in squadra azzurra, si smarrì al punto di trasformare la sua rete in un colabrodo – è una locuzione che ha resistito all’usura degli anni e tuttora designa i giocatori che perdono la testa quando sono chiamati a difendere i colori nazionali.
Il nostro Vivolo non è di questa parrocchia. Lo si è visto a Stoccolma (26 ottobre 1952, Svezia-Italia 1-1, n.d.r.). Ha trovato la chiave del gioco internazionale con la stessa naturalezza di chi trova in tasca la chiave di casa. Non ha aspettato due minuti per orientarsi. Proprio al secondo minuto di gioco ha allungato a Boniperti una palla che aveva incollata sulla tomaia l’etichetta della destinazione a rete, come una valigia in viaggio aereo: e se il goal che ne è uscito è nato vivo, ma non vitale (annullamento per fuorigioco di «Boni»), la colpa di ciò non va tanto attribuita a un’azione imperfetta di Vivolo-centravanti, quanto a un precipitoso anticipo di Boniperti-ala nella sua corsa al passaggio di palla.
Comunque il biondo aveva contratto un debito d’onore (i debiti di giuoco sono, per definizione, debiti d’onore) col bruno suo compagno di squadra, Non aspettò per pagarlo più di sei minuti. Fu quando lo stesso «Boni», all’ottavo minuto della partita di Stoccolma, restituì a Vivolo il passaggio che aveva ricevuto sei minuti prima e che gli era servito per marcare una rete assai bella, e purtroppo platonica per il noto annullamento.
Qui Vivolo venne a trovarsi nella situazione a un tempo lusinghevole e scabrosa della matricola che riceve da un laureando un segno di considerazione e di simpatia. Può nascondere un tranello, in ogni caso è una prova che va affrontata e superata, pena una canzonatura o un castigo.
Vivolo non batté ciglio, accettò la palla-sfida di capitan Boniperti e senza tanti preamboli la schiaffò in rete.
Di quella la prima e l’ultima rete marcata dalla squadra italiana nella partita-pareggio di Stoccolma: e ne fu autore, come vedemmo, la matricola Vivolo.
Non c’è male come preludio di carriera internazionale.
A ventiquattro anni d’età un calciatore ha poca storia dietro le spalle, É un galletto di primo canto, che a seconda delle abitudini e delle circostanze, può finire arrostito allo spiedo o sceicco del pollaio. È molto probabile che il ventiquattrenne Vivaio abbia questo secondo destino. Ha in sé tre documenti di garanzia: l’atto di nascita, la palestra, l’addestramento, il certificato di residenza sportiva: Napoli, Cremona, Torino.
È nato scugnizzo, nel significato monellesco e fantasioso che ha la parola. E chi ha sangue napoletano nelle vene ha nel cervello un rametto fiorito di petulante e furbesca estrosità. Ricordarsi di Attila Sallustro.
Ha giocato per la Cremonese: è una società che non ha resistito alla morsa del calcio-spettacolo (con tutte le sue conseguenze economiche), ma che non ha perduto il suo timbro tradizionale di formatrice di squadre coraggiose e pugnaci. Ricordarsi dei fratelli Ravani.
È entrato nella Juventus: e questa non è tanto una società, o una squadra, quanto una scuola. Per scuola non deve intendersi semplicemente arte di giuoco, ma guida del costume, modo di vita onorevole e signorile, sede di club e non soltanto rettangolo verde.
Una società, quale la Juventus, che ha frequentemente intercambiato il giocatore e il dirigente, ha nell’uso, e quasi direi nell’istinto, la capacità di armonizzare nell’animo dei propri atleti l’abito del professionista e lo spirito del socio.
Lo compensa (anzi, lo ricompensa), senza limitare la propria prestazione a un arido e mercantile pagamento. Ricordarsi di Combi.
Ardente alla napoletana, battagliero alla cremonese, stilista alla juventina, Vivolo possiede quanto è necessario per imprimere l’accento della personalità nel gioco di una prima linea azzurra che da tempo andava trasvolando da un esperimento all’altro senza trovare una soluzione soddisfacente e duratura.
L’ascesa di un calciatore e la titolarità di un ruolo – specialmente del ruolo scorbutico di centravanti sistemista – sono fatti che dipendono in proporzioni mal definibili dalle qualità dell’atleta e dalla fortuna che lo assiste. Ma la fortuna non dovrebbe mancare a un giocatore, quale il Vivolo, che è entrato in scena con la baldanza giovanile e la disinvoltura spiritosa di una recluta a cui bastano poche lezioni del sergente istruttore per imparare a memoria il suo mestiere.
Quel suo tocco di palla, per esempio vale un ritratto. È un tocco fervido e secco a un tempo, un atto di padronanza, un annuncio di azione virtualmente impostata, una partenza felice. Questo è stile della più bell’acqua. Ma non sempre lo stile, anche se raffinato, conduce lontano: si guasta e si deforma nei giocatori che per fragilità di costituzione fisica, o per temperamento, hanno il disgusto degli ostacoli rappresentati dagli avversari poco cavallereschi o molto spregiudicati Allora girano largo nei canti, come faceva il Cellini, che aveva ben ragione di temere i cattivi incontri, o mettendo addirittura il sedere per terra al primo urto.
Questo complesso di inferiorità non appartiene a Vivolo. È un ragazzo dì fegato e la lotta gli piace. I mediocentri sistemisti che spesso non esitano ad applicare la cura del manico dell’ombrello alle caviglie dei centravanti impertinenti, hanno poco da scherzare quando l’impertinenza viene da Vivolo. Se può, egli fugge affidandosi all’alterna risorsa della serpentina diretta o del passaggio incrociato col mediano o con l’attaccante smarcato. Ma se non può perché l’avversario gli è addosso, egli accetta l’azione d’uno con un vigore muscolare che il puntiglio tempra. Per quanto l’avversario difensore abbia il vantaggio dell’addestramento alla marcatura, e spesso della mole gladiatoria (i mediocentri pesano solitamente qualche chilo di più degli attaccanti. e lo sfruttano senza farsi pregare), non sempre Vivolo ha la peggio.
È un giocatore che «ha il becco», come si dice nel gergo dei giocatori combattivi e impavidi. È della razza degli Schiavio, per citare un atleta della vecchia guardia in disarmo: un atleta che, per grana di giuoco, lucidità di dribbling serrato, vigore di temperamento e animoso senso della rete, trova in Vivolo un successore ideale lungo la traiettoria dei punti di analogia.
Per il resto Vivolo è, a mio parere, la trovata più sicura che il calcio nazionale abbia escogitato nel periodo del dopo-guerra e nel campo degli esordienti in maglia azzurra.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

un grandissimo giocatore....uno dei migliori ai quei tempi...peccato abbia lasciato il calcio da giovane (appena 28 anni).... se avete foto sarei interessato.
email: lucasquintani@hotmail.it

Guido ha detto...

Concordo in pieno. Peccato che fosse stato lui ad andarsene alla Lazio invece che Boniperti. La Lazio voleva lui, non Pasquale Vivolo. Prima che Boniperti accettasse di andare, Vivolo si era proposto, e da li la Lazio e la Juve si misero d'accordo.

Molti non sanno che poi Vivolo divento' capitano della Lazio (1955-57)

Gran uomo sia nel calcio che nella vita.