martedì 13 febbraio 2024

Liam BRADY


Ventiquattro anni, due Coppe d’Inghilterra alle spalle – scrive Giancarlo Galavotti sul “Guerin Sportivo” del 13 agosto 1980 –, tanto cervello e tanta classe: questo è Liam Brady che, nei ritagli di tempo, si è improvvisato scrittore con un libro che – sono parole sue – non è e non vuole essere un’autobiografia ma la storia di un irlandese che si considera molto fortunato e che ha trovato nel calcio la sua realizzazione. «So far so good» s’intitola il volume di Brady: «tanto lontano, tanto bello» -si potrebbe dire in italiano.
Ma cos’è tanto lontano e tanto bello? Forse la sua giovinezza, forse la sua verde Irlanda, forse i suoi sogni, molti dei quali già realizzati. Il libro di Brady è una specie di lunga cavalcata all’interno della vita del giocatore e delle sue varie sfaccettature. Ma è soprattutto una proposta panoramica del gioco che – dice il neo juventino – «è un qualcosa che coinvolge e ti coinvolge a ogni livello. Ma è anche un qualcosa che ti insegna a vivere anche perché, quando giochi, tutti quelli che ti vedono hanno il diritto di criticarti in pubblico. E questo è il modo migliore perché uno cresca in fretta».
E Brady, a crescere in fretta, c’è riuscito pienamente: dopo le esperienze iniziali a Dublino sono venute quelle di Highbury con la maglia dell’Arsenal, una delle squadre più amate di tutta l’Inghilterra, e ora quelle della Juve dove il suo arrivo ha avuto il potere di galvanizzare un ambiente. E adesso leggiamo la sua storia.
Pare che la prima volta che a Liam Brady passò per la testa di diventare calciatore professionista, fu quando aveva sette anni. Era il 1964, e i suoi fratelli maggiori, Ray e Pat, giocavano già al football. Entrambi avevano debuttato nell’Home Farm, vivaio di talenti d’esportazione della lega irlandese, e si sarebbero infine ritrovati nei Queen’s Park Rangers di Londra, dopo essere passati per il Millwall. Ray, terzino, era senz’altro il migliore, tanto da venir convocato fin dal 1963, a far parte della nazionale dell’Eire. Arrivò così il giorno che papà Edward, che faceva il portuale nella capitale irlandese, portò il più piccolo dei sette figli, Liam, (oltre a Ray e Pat c’erano Breda, Frank ed Eamon, mentre un’altra femmina era morta in tenera età) allo stadio, dove Pat e i compagni nelle maglie verdi dell’Eire giocavano contro l’Austria. In quell’atmosfera magica di canti, di grida, di folla, di inni nazionali e di bandiere, Liam Brady, ragazzetto mingherlino e già non molto alto, anche per la sua età, sogno di emulare, un giorno, il fratello più grande. Ma c’erano altre cose, in casa Brady che parlavano di football: non mancava occasione che mister Edward non tirasse fuori le storie di suo zio Frank, che negli Anni Venti aveva giocato nel Belfast Celtic, un club che ora non c’è più, ed era stato chiamato due volte in nazionale, per un match di andata e di ritorno contro l’Italia, Il 21 marzo 1926 la partita fu giocata a Torino, e gli azzurri vinsero per 3-0. A Dublino, il 23 aprile dell’anno seguente, l’Italia segnò ancora tre reti, e la squadra di casa due. Poi c’era la passione della gente per il football, tante squadre a Dublino e tanti campionati giovanili per avviare fin da piccoli i possibili campioni del mondo a conoscere tutti i segreti del gioco. E a nove anni Brady entrò nella prima squadra, il St. Kevin’s Boys Club. Un paio di anni dopo, quando dalle elementari passò alle scuole superiori, nel collegio cattolico di St. Aidan, fu costretto però a dividere e raddoppiare il suo impegno con il pallone: a scuola, come in tutte le scuole della Repubblica, di Irlanda, si giocava il football gaelico, che è una variazione più rude del calcio, sostenuta dallo spirito patriottico e irredentista di una popolazione che cerca il più possibile di distinguersi dall’Inghilterra, e quindi anche nel caso dello sport, appoggia le tradizioni locali piuttosto che quelle importate, o imposte, attraverso il lungo dominio della nazione vicina.
Calcio con il St. Kevin’s, gaelic con il collegio: Liam di allenamenti e di padronanza della palla ne aveva come un professionista: però doveva per forza scapparci il conflitto, che esplose quando, a 15 anni, si trovò convocato dalla nazionale studentesca per una partita contro il Galles, e nominato capitano della squadra. Quando andò dal preside, Padre Walsh, per chiedergli il permesso di stare assente per il match, il superiore non mostrò affatto di congratularsi con lui per essere stato chiamato a rappresentare l’Irlanda. Invece gli ricordò che nello stesso giorno c’era un’importante partita di gaelic contro un’altra scuola, e senza mezzi termini gli fece capire che, se avesse rifiutato di difendere l’onore dell’istituto preferendo giocare al calcio, poteva considerarsi espulso. Naturalmente Brady giocò in Galles con l’Irlanda, fu espulso dalla scuola con il pieno appoggio della famiglia, e soprattutto di suo padre, e alcuni giorni dopo la storia finì su un giornale di Dublino, che denunciò l’assurdità del comportamento del preside. Ma non ci fu nulla da fare: Liam non rimise più piede al St. Aidan, se non per gli esami di fine anno, ai quali si era preparato in un altro istituto.
Del resto non aveva più bisogna di tornare a scuola, perché subito dopo arrivò la chiamata dell’Arsenal, che lo aveva accettato nel suo vivaio. Era il 1971, e Liam aveva 15 anni. L’Arsenal lo stava tenendo d’occhio da un paio d’anni prima, quando due dei suoi talent scout, Malwyn Roberts e Bill Darby, lo avevano segnalato a Highbury, e nell’estate avevano provveduto a farlo arrivare a Londra, per il primo provino. Il ragazzino si fece prendere, quella volta, dall’emozione, e per una buona mezz’ora non riuscì a combinare nulla, quasi avesse il piede paralizzato. Poi, quando mister Roberts, che lo aveva accompagnato, stava già per sprofondare, cominciò a far capire che anche nel suo caso l’intuizione del talent-scout non era stata fasulla. A quello, nell’estate successiva, era seguito un altro periodo di prova, un’altra estate a Highbury, e finalmente, l’anno dopo, la convocazione definitiva. Non fu facile, per Brady, adattarsi subito a Londra, alla lontananza dalla famiglia, dalla gente cordiale di Dublino, e soprattutto al rigido ambiente del vivaio, dove continuavano ad arrivare ragazzi da tutta la Gran Bretagna, e dall’Irlanda, molti dei quali venivano rispediti a casa, con il sogno di diventare un campione del football infranto per sempre.
Durante le vacanze di Natale, alla fine di sei mesi di intenso tirocinio, Brandy di nuovo in famiglia fu sul punto di lasciare tutto: disse ai genitori che non ne voleva più sapere di Londra e del calcio e il giorno fissato si rifiutò di far ritorno in Inghilterra. Arrivando un paio di lettere da Highbury, che chiedevano notizie e lo invitavano a ripresentarsi al più presto agli allenamenti. Bastò questo per far superare la crisi a Brady che, pur con due settimane di ritardo, si presentò finalmente al quartier generale dell’Arsenal, che non doveva più lasciare per quasi dieci anni. Brady era stato preso in forza dal settore giovanile dei «cannonieri» proprio al termine di quella che era stata la stagione più gloriosa nella centenaria storia del club londinese. Nel campionato 1970-71 i rossobianchi avevano conquistato, oltre al primo posto in classifica, anche la Coppa d’Inghilterra, realizzando una doppietta che rappresenta un risultato eccezionale e ambito da tutte le maggiori formazioni del campionato inglese. Si respirava quindi ancora l’atmosfera esaltante delle celebrazioni dei festeggiamenti, e i ragazzini del vivaio tremavano di emozione e di rispetto incrociando negli spogliatoi sul campo e nelle sale di Highbury i campioni che avevano saputo cogliere un tale trionfo. Ma per Brady e compagni tutto doveva scemare molto presto nelle delusioni e nel declino delle stagioni successive. Pochi giorni dopo la fine del campionato, il coach Don Howe aveva deciso di andarsene, per tentare la carriera di manager con il West Bromwich Albion. Fu soprattutto quella la causa delle successive fortune avverse dell’Arsenal, in quanto, privo del validissimo aiutante, il manager Bertie Mee si rivelò subito incapace di mantenere gli standard che avevano consentito alla squadra l’accoppiata campionato- coppa. Tuttavia, per il momento, queste vicende non toccavano direttamente Brady e gli altri della squadra giovanile, che si stavano formando il carattere e le qualità partecipando al campionato della categoria, vestendo però di tutto punto come i grandi della prima divisione, e scendendo in campo contro altre formazioni che porta- vano i nomi di Liverpool, Manchester United, Tottenham. In quel contesto, sotto la guida del responsabile del vivaio, Brady imparo a limitare l’istinto naturale che lo portava a insistere troppo nel possesso della palla, a discapito del gioco di squadra: e allo stesso tempo raffinò la sua tecnica a un livello decisamente superiore alla media, in modo da supplire con l’abilità alle carenze di peso e di statura nei confronti dei compagni.
Comunque per questo, continuavano a riempirlo di vitamine e di diete super-nutritive, per rafforzarlo il più possibile e per mettergli di resistere agli scontri e battere i più massicci difensori avversari. Già nella sua prima stagione con l’Arsenal, Brady venne convocato con una certa frequenza nei ranghi delle riserve, vale a dire l’anticamera della prima squadra. Le riserve disputano un campionato appositamente creato per loro, e fanno trovare insieme i giovani che sperano di arrivare finalmente al grande debutto, e i calciatori della prima squadra che vengono declassati fino a che non ritrovano la forma e la capacità di ritornare a far parte della formazione superiore. In tal modo, Brady si trovò a giocare con Alan Ball, uno degli eroi della nazionale della Coppa del Mondo 1966, che nell’Arsenal era il motore, il perno del centrocampo, l’animatore di ogni azione, che dirigeva gridando in continuazione come un sergente maggiore ma comunicando il suo entusiasmo a tutti gli altri. Così il mingherlino dal piede sinistro magico, cha giocava naturalmente sulla fascia esterna a sinistra, collaborando col centrocampo in maglia numero undici, venne definitivamente giudicato maturo per il passaggio nei ranghi dei professionisti: nel febbraio del 1973 fu ingaggiato dall’Arsenal con un contratto della durata di due anni, a 120.000 lire al mese. Per un ragazzo di diciassette anni era quanto di meglio potesse desiderare.
Nel ‘73-’74 Bertie Mee si riproponeva di provare a risolvere le sorti della squadra, già lacerata da profondi contrasti tra giocatori e dirigenti, con un coach che riuscisse a riportare l’ordine e i risultati ottenuti nell’armata d’oro da Howe. Così, al posto di Steve Burtenshaw, che nelle due stagioni successive non aveva fatto molto più che litigare con tutti, da Alan Ball a Charlie George, fu assunto Bobby Campbell. L’arrivo di Campbell fu preceduto però di pochi giorni dal passaggio di Frank McLintock, una delle colonne dell’Arsenal campione, al Queen’s Park Rangers. Oltre che a rinnovare i sistemi di training, Mee voleva anche ricostruire radicalmente la squadra. L’impresa però si rivelò ben presto un salto nel vuoto. Nel settembre del 1973 i «cannonieri» vennero subito messi fuori dalla Coppa di Lega perdendo a Highbury dal modesto Tranmere. In tale contesto, il 6 ottobre, arrivò per Brady il grande giorno. Convocato in panchina con le riserve per l’incontro di campionato in casa con il Birmingham City, senza alcuna prospettiva di essere impiegato nel corso della partita, si trovò invece a debuttare a freddo, quando una brutta distorsione al ginocchio mise fuori causa Jeff Blockey. Non ci volle molto, tuttavia, per vedere messo in pratica tutto il talento e il mestiere messi insieme nel solido apprendistato: l’Arsenal vinse uno a zero, con un gol di Ray Kennedy, ma tutti i commenti della stampa furono per lodare la prova di Liam Brady. La gioia fu però di breve durata: la settimana dopo, Mee lo schierò fin dall’inizio contro il Tottenham, che vinse due a zero, e il gioco dell’Arsenal e di Brady furono definiti un incubo. Così fu rimandato a qualche lezione supplementare nelle riserve. Ma ormai si era fatto notare, e nel gennaio del 1974 fu di nuovo chiamato a giocare in campionato. Le sorti dell’Arsenal continuavano ad alternare poche vittorie a molte sconfitte, dimostrando che anche Campbell non aveva niente da spartire con le qualità del sempre più rimpianto Don Howe. Ma il 30 aprile del 1974, durante il match casalingo con i Queen’s Park Rangers, Alan Ball si ruppe una gamba, e Brady andò a occupare per la prima volta quel ruolo di regista che lo avrebbe poi definitivamente consacrato tra i migliori calciatori della scena inglese. In totale giocò quell’anno solo nove partite in prima squadra, e sembrava destinato ad attendere ancora prima di potersi assestare definitivamente tra i titolari, se non che durante la tournée preliminare alla stagione 1974-75 in Olanda, Ball, che aveva cercato di ristabilirsi al più presto, tornò a rompersi la gamba, garantendo automaticamente la permanenza di Brady in prima squadra. Poco dopo il 30 ottobre, Johnny Giles, valido manager-giocatore, coronava il momento fortunato del suo connazionale chiamandolo a rivestire per la prima volta la maglia verde dell’Eire, in un clamoroso match di qualificazione per gli Europei a Dublino contro la Russia battuta per tre a zero.
Tornando a Londra, il giorno seguente, Brady dovette però tornare bruscamente alla realtà ben diversa dell’Arsenal ridotto a fanale di coda della prima divisione. E per giunta venne a sapere che Mee aveva deciso l’acquisto di Alex Cropley, un giocatore delle sue stesse caratteristiche. «Stai tranquillo, tu continuerai a essere il titolare» gli disse il manager per rassicurarlo, quindi lo rimandò subito tra le riserve, dove si procurò uno stiramento addominale che lo tenne fuori praticamente fino alla fine del campionato. L’Arsenal riuscì a salvarsi per un pelo, finendo al 19. posto. Il 1975-76 non cominciò per nulla con auspici migliori. Brady fu richiamato tra i titolari, gioco 30 partite e fece anche tre gol, ma la squadra non andò oltre il 15. posto. Fu anche troppo, considerata l’aria da guerra civile che tirava a Highbury: Bertie Mee ormai non si faceva più vedere, e Campbell non faceva altro che aumentare il nervosismo dei giocatori, scontrandosi con Ball a ogni occasione, e provocando infine la sua richiesta di trasferimento. Già se n’era andato Kennedy, acquistato dal Liverpool, e quindi fu la volta di Charlie George, che passò al Derby. Quindi toccò a McNab, trasferito al Wolverhampton. Tuttavia, anche in mezzo a quello sfacelo, qualcosa di buono stava succedendo: certo, l’Arsenal continuava a lottare per la salvezza e farsi buttare fuori dalle Coppe Nazionali fin dalle prime battute, ma il crescente impiego di elementi giovani, come Brady, O’Leary e Stapleton, avrebbe dato i suoi frutti in futuro, quando Mee e Campbell sarebbero già stati lontani. Ai primi di marzo, infatti, il manager annunciò, senza riuscire a trattenere le lacrime di fronte ai giornalisti, che a fine stagione se ne sarebbe andato. Ciò creò subito una spaccatura in seno alla squadra: alcuni volevano Campbell, gli altri (e Brady tra questi) un radicale colpo di timone. Finito il campionato, con l’Arsenal ancora miracolosamente salvo, in 17. posizione in classifica, il consiglio direttivo della società decise di optare per un elemento nuovo, e invece che accettare Campbell affidò il posto a Terry Neill, manager del Tottenham, che si portò dietro anche il coach Will  Dixon. Ben presto però Brady e gli altri si sarebbero accorti che anche questo cambiamento non avrebbe mutato granché per quel che concerneva l’ambiente e i risultati. Neill cominciò subito a sbarazzarsi di quelli che erano stati fautori di Campbell: continuò, come avevano fatto i suoi predecessori, a scontrarsi violentemente con Ball, che era considerato il capo, il rappresentante e il portavoce dei giocatori, e comprò dal Newcastle United Malcolm MacDonald, un centravanti di grandi capacità ma estremamente egocentrico, che ben presto impose alla squadra di giocare esclusivamente in sua funzione, causando perciò alti e bassi a seconda delle sue condizioni e del suo rendimento a ogni singolo incontro. Così Brady, e i nuovi come O’Leary, Rix e Young (preso dal Tottenham) debbono ruotare attorno a MacDonald, i cui acuti non sembrano essere così frequenti come le stonature.
L’unica carica psicologica arriva a Liam dall’attività con la nazionale irlandese, che sotto Giles attraversa un positivo periodo di revival, anche se alla fine sia la qualificazione agli Europei che ai Mondiali del 1978 verrà mancata. Ma l’aria che si respirava nell’Eire è sempre molto più buona di quella di Highbury. L’inizio del 1977 ve de l’Arsenal precipitare in un baratro di undici partite negative di fila. È poi la volta dell’eliminazione della Coppa d’Inghilterra, buttati fuori dal Middlesbrough. Neill accusa i giocatori di non essere capaci di battere nemmeno undici «bidoni della spazzatura». Brady è alla nausea. La squadra ha un’impennata d’orgoglio nel finale della stagione, riuscendo a terminare a metà classifica. Ma questo non gli impedisce di chiedere il trasferimento. Lo trattiene in seguito la decisione della presidenza, che si è resa conto che non è più possibile continuare in quel modo: o si trova un coach che sappia fare il suo mestiere, come la tradizione dell’Arsenal richiede, o non si vede come la squadra possa uscire dal tunnel. Si fa il nome di Dave Sexton, che però sceglie il Manchester United. Intanto l’Arsenal è in Australia, a disputare un torneo di amichevoli in preparazione del 1977-78. Neill ne combina un’altra delle sue, spedendo a casa in anticipo MacDonald e Hudson, rei di aver bevuto un bicchiere di fronte al presidente. Ma il 9 agosto arriva l’annuncio che riempie Brady e gli altri di un entusiasmo che non credevano di ritrovare più: l’Arsenal ha un nuovo coach, Don Howe. Sì, l’uomo che tutti a Highbury rimpiangevano ha deciso di ritornare all’ovile, e in pochi giorni con le sue qualità umane e di tecnico conquista tutti giocatori. Neill viene ridotto a fare il direttore sportivo, a occuparsi della stampa e delle pubbliche relazioni, ma tutto quello che ha a che fare con il gioco dell’Arsenal non deve più riguardarlo direttamente: ci pensa Howe a decidere la formazione, a studiare ruoli, schemi e tattiche, a gridare gli ordini dalla panchina.
Così l’Arsenal ritorna nel giro delle grandi, e si qualifica per la finalissima della Coppa d’Inghilterra di Wembley, contro l’Ipswich. Brady è tra quelli che hanno messo maggiormente a frutto gli insegnamenti di Howe: si fa sempre più spesso notare tra i migliori in campo, si spinge in avanti, come vuole il coach, e comincia a segnare oltre che a far segnare con la sua abilità di playmaker. Purtroppo è l’Ipswich che si aggiudica la Coppa, con una sola ma ugualmente determinante rete. Ma il disappunto per aver mancato il successo proprio all’ultimo viene sfruttato da Howe per dare una carica ancora maggiore all’Arsenal nella stagione che viene. Ancora una volta il coach dà prova delle sue qualità: ancora l’Arsenal arriva alla finalissima di Wembley, e Brady è salutato unanimemente come l’artefice primo dell’appassionante scalata alla Coppa d’Inghilterra. Tanto che l’associazione calciatori professionisti lo elegge «miglior giocatore della stagione» e i giornali cominciano a parlare di lui, con titoli sempre più altisonanti, come del numero due del calcio britannico, secondo solo a Kevin Keegan. A Wembley, Brady fornisce la prova più convincente ed esaltante che l’onore tributatogli dai colleghi è ampiamente meritato: l’Arsenal batte il Manchester United per tre a due, al termine di novanta minuti che sono passati alla storia tra i più emozionanti della prestigiosa competizione. È Brady a suggerire i due gol che portano in vantaggio i «cannonieri» nel primo tempo, ed è ancora lui, a pochi secondi dalla fine, a fare avere una palla stupenda a Sunderland, che annulla così ogni sforzo dello United, che nella ripresa si era portato sul due a due. Oltre duecentomila persone salutano il ritorno dell’Arsenal nel quartiere di Highbury, cantando «di Liam Brady ce n’è uno solo». Ma poco dopo il loro entusiasmo si spegne con la notizia che il loro idolo ha deciso di andarsene quando, a meta del 1980, scadrà il suo contratto.
Come Keegan, come Woodcock e Cunningham, anche lui vuole cimentarsi nel Continente, misurando il suo valore e acquistando nuove abilità nel confronto con il calcio di una nazione europea di grandi tradizioni, come la Germania, la Spagna o l’Italia. Nel frattempo continua a dare il meglio di sé, anche se i tifosi sono pronti a beccarlo, adesso, per l’occasionale svista, e i dirigenti di Highbury rimproverano la mancanza di lealtà nei confronti del club. Ancora una volta, ed è storia di quest’anno, l’Arsenal arriva in finale a Wembley, ma il peso di una pressante stagione inglese ed europea, in Coppa delle Coppe, si fa sentire di colpo, e la vittoria è del West Ham. Però il valore di Liam non è sfuggito a Boniperti, che l’ha osservato a Highbury e soprattutto a Torino guidare la sua squadra nell’eliminazione della Juventus dalle semifinali di Coppa delle Coppe. Il piano del presidente bianconero è di assicurarsi l’irlandese a centrocampo e Rossi in attacco: lo scandalo delle scommesse fa sfumare l’abbinamento e Brady per un po’ viene lasciato nel cassetto. Ma dopo aver girato in lungo e in largo per il mondo, rischiando di restare a mani vuote, la Juventus e giunta il mese scorso alla conclusione che nessuno tra gli stranieri disponibili aveva la classe e il potenziale di Liam Brady, soprattutto al prezzo di appena un miliardo e qualche milione di lire. E l’uomo di Dublino arriva trionfalmente alla corte della Vecchia Signora per aiutarla a recuperare il fascino perduto.
Nel ‘78-79 William-Liam (all’italiana) Brady ha vissuto il suo periodo migliore vincendo il premio riservato al calciatore dell’anno e la Coppa d’Inghilterra a chiusura di una stagione davvero meravigliosa. Ed è stato soprattutto suo il merito del successo che l’Arsenal ha conseguito a Wembley quando ha battuto il Manchester United per la conquista del più ambito trofeo del calcio inglese: senza i suoi passaggi e la sua visione di gioco, infatti, questo risultato non sarebbe giunto. Ma la stagione ’78-79 è stata, per il fuoriclasse irlandese, la migliore di tutta la sua carriera visto che, con 17 gol, ha realizzato il proprio record quale marcatore. E quando Sir Stanley Matthews, l’indimenticato fuoriclasse del calcio britannico degli Anni Quaranta e Cinquanta, gli ha consegnato il premio riservato al calciatore dell’anno, Brady ha detto: «È il più importante riconoscimento che abbia mai ricevuto».
Quando Arsenal e Manchester United si sono trovati di fronte a Wembley per la finale della Coppa, tutti si aspettavano un Brady goleador: al contrario, lui si è proposto a pubblico e tecnici come regista e creatore di occasioni favorevoli per gli altri, e questa è stata la risposta a chi non credeva in lui e a chi ne contestava il diritto alla successione di Keegan come «number one» del calcio inglese dopo la sua partenza per Amburgo.
Era da tempo che Brady diceva di voler tentare, una volta scaduto il contratto con l’Arsenal, l’avventura in Europa ma sempre, in un modo o nell’altro, i «gunners» erano riusciti a farlo rientrare anche perché, valutandolo tre milioni di sterline (è vero o no che Francis, due anni or sono, fu valutato un milione?) pensavano di poter respingere gli assalti... europei sulla loro star. E invece... la Juve ce l’ha fatta e ora sulla testa di Dennis Hill-Wood, presidente del club londinese, si sono addensate molte nubi foriere di tempesta.
Nei sei anni che Brady ha vestito la maglia dell’Arsenal non si è certamente imposto come goleador: una sola rete (in nove partite) nel ‘73-74; tre l’anno dopo; cinque ognuno nei due campionati successivi, ma le 17 realizzate due anni fa sembrano dare ragione a Don Howe, l’allenatore dell’Arsenal che in questo ragazzo ha sempre creduto ciecamente. Sempre a proposito del Brady-goleador, sentiamo cosa pensa di sé il giocatore: «Far gol è la cosa più bella del mondo anche se devi solo toccare il pallone in fondo alla rete avversaria da due metri. Ancor più bello, però, è segnare da lontano, come faccio io quasi sempre. Ci sono due persone che mi hanno dato coraggio in questa mia veste: Terry Neill e Don Howe, ed io cerco di seguire i loro suggerimenti. So benissimo che la gente mi considera una punta ma io, in questa posizione, ho giocato solo un paio di volte in assenza di Stapleton o McDonald per infortunio». Rigorista emerito, Brady è difficilissimo che sbagli dagli undici metri: «Nell’Arsenal – dice – ho ereditato questo compito da MacDonald quando Supermac sbagliò due rigori consecutivi. Allora gli subentrai io e da quel giorno non ho più ceduto a nessuno quest’incarico». 

DARWIN PASTORIN, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 13 AGOSTO 1980
Liam Brady e la Juventus si sono amati a prima vista. È stata davvero una «corrispondenza d’amorosi sensi». Cinquemila persone, per la vernice di Madama a Villar Perosa, hanno applaudito a lungo l’irlandese, che ha dato subito buona mostra di sé: sinistro magico, lancio lungo, intesa già magnifica con Roberto Bettega. I venditori di gagliardetti e bandiere bianconere hanno fatto affari d’oro grazie a questo irlandese silenzioso, un po’ timido, che non perde mai l’occasione per applaudire la prodezza di un compagno. Le bancarelle, ai bordi del campo, portavano scritto: «Esaurite le foto di Brady». L’amarezza-Maradona è già stata dimenticata. Un tifoso antico della Juve ha gridato all’avvocato Agnelli, immancabile all’appuntamento della «prima» di Madama: «Grazie per averci acquistato questo gran giocatore». Lo stesso Gianni Agnelli, festeggiato calorosamente dai tifosi, si è espresso in termini lusinghieri nei confronti del centrocampista: «Brady sa giocare al calcio, è un uomo d’ordine che col sinistro fa veramente quello che vuole. Non è molto veloce, ma si fa vedere in ogni zona del campo».
La benedizione dell’avvocato vale oro. Brady davanti a un simile attestato (una specie di laurea ad honorem pallonara) si è lasciato scappare un lieve sorriso. Dichiarazioni ditirambiche: l’irlandese veste già stile Juve... Anche Giampiero Boniperti ha visto un Liam Brady in gran forma. Solitamente parco di parole e di giudizi, il presidente si è sbottonato, segno evidente che questo Brady piace davvero (non è quindi, come hanno affermato certi maligni, soltanto una soluzione di ripiego...). Boniperti ha detto: «Brady mi ha molto soddisfatto. D’altronde, non lo scopriamo certo noi ora. In Inghilterra ha giocato più di duecentocinquanta incontri, segnalandosi sempre come un giocatore utile e continuo. Bene, davvero bene questo Brady: i compagni lo cercano e lui ha per tutti palle bellissime, lanci in profondità da primo della classe».
Liam Brady si è già inserito perfettamente nel tessuto bianconero. Il suo fair-play, tipicamente anglosassone, ha conquistato i tifosi. Pier Carlo Perruquet, capo carismatico dei supporters bianconeri, ha detto: «Brady, dopo che lo avevamo accolto trionfalmente al suo arrivo, all’aeroporto di Caselle, ci ha telefonato alla sede del “Club Torino” per ringraziarci. È veramente un ragazzo eccezionale. Per noi è già un beniamino. Ancora una volta Boniperti ha visto bene».
In campo, Liam ha parole di stima per tutti. Chiama i compagni con nome di battesimo o col nomignolo di battaglia: «Franco», «Cuccu», «Bobby». La sua intesa con Bettega, parole e musica di Giovanni Trapattoni funziona già a meraviglia. «Tra i due, che parlano lo stesso linguaggio calcistico – ha avuto modo di dire il Trap – certe giocate vengono spontanee. Due fuoriclasse sanno trovarsi anche a occhi chiusi. Non servono le tattiche o le alchimie».
Liam Brady e la Juventus, insomma, è già un grande amore. E, a detta di molti, non sarà soltanto una parentesi estiva, un approccio destinato a concludersi alle soglie dell’autunno. Brady e la Juve vogliono amarsi follemente per tre lunghe stagioni (il periodo cioè, della durata del contratto dell’irlandese) senza mai ombra di peccato o di tradimento. E poi, si sa, Madama non perdona gli amanti infedeli. È fatta così. Vecchia sì, ma non in menopausa... Al contrario, come tutte le «jeunes filles en fleur» di una volta, Madama è per i lunghi sodalizi anche se sa che in questo modo si rischia di sfilacciare il rapporto. Meglio un rapporto sfilacciato ma vissuto intensamente e a lungo, però, di un colpo di fulmine che si conclude nel breve spazio di pochi mesi: questo può essere accettato da chi non ha la classe di Madama. Lei invece, profumata e vestita con grande chic, si concede sì ma solo a chi la merita e Brady, questo irlandese dagli occhi chiari come l’acqua di un fiume di montagna, indubbiamente la merita.

GRAZIA BUSCAGLIA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 27 AGOSTO 1980
Mr. e Mrs. Brady formano una bella coppia: lei, Sarah, una biondina londinese di vent’anni, è un vulcano di idee e di progetti. Lui, il famoso Liam, quando ha al fianco la graziosa mogliettina è totalmente diverso dal «Brady calciatore», persino l’espressione del suo volto, burbera e impenetrabile a ogni «impatto» con i giornalisti, si trasforma in quella tipica dell’omino innamorato di Peynet. Si sono sposati a fine maggio a Londra, secondo il rito protestante, anche se lui è cattolico. «Quel giorno – svela Sarah – Liam era emozionatissimo, neanche avesse dovuto giocare la finale di Coppa del Mando: in più gli dava fastidio la mia calma. Era comico a vedersi».
Sarah e Liam si sono conosciuti due anni fa a Dublino. «Era proprio destino che lo incontrassi: fino a cinque anni fa io ero vissuta a Londra, poi mio padre fu trasferito a Dublino per ragioni di lavoro. Liam era in vacanza dai suoi. Era già famoso: in Irlanda, poi, è una sorta di semidio. Una sera, appunto, ero in un pub con degli amici quando lui entrò. Tutti, al suo ingresso, avevano cominciato a bisbigliare: “C’è Brady, c’è Brady”, nemmeno fosse stato la Regina Elisabetta! Io sono molto orgogliosa di essere inglese, figuriamoci se mi sarei mai abbassata a sbavare per un irlandese. Dopo un po’, i miei amici mi fecero notare che questo Brady mi stava puntando. Liam mi venne vicino e mi offrì da bere: gli risposi che non avevo bisogno di niente. Non mi piaceva. Allora, per giunta, io uscivo con un altro ragazzo: non ero neanche tifosa dell’Arsenal, seguivo il Leeds. Cominciammo a parlare e lo trovai simpatico, mi divertivo a chiacchierare con lui. Quando tornò a Londra mi scrisse molte lettere e mi telefonò sovente. Beh, debbo dire che ancora adesso quando siamo lontani Liam vive al telefono. Poi, non si sa bene come e perché, mi innamorai di questo irlandese ed eccomi qua, sposata».
– Liam, da quanto dice Sarah dev’essere stato difficile vivere separati, tu a Londra e lei a Dublino... «È stato molto più difficile per me. Sarah è sempre stata indipendente, troppo indipendente. Ci vedevamo una volta al mese, ma lei era talmente occupata che non si accorgeva neanche del tempo che passava. Io contavo non solo i giorni, ma persino le ore e i minuti».
– Liam è geloso di te come della sua vita privata? «Sotto questo punto di vista è un vero uomo latino, altro che irlandese! Non vorrebbe mai lasciarmi sola, si preoccupa troppo». «Lei invece – interviene Liam – non si preoccupa per niente. “Stai tranquillo, io so ciò che devo fare”, mi dice, e mi “spedisce”. Anche adesso è tutta presa dall’Italia, da Torino, le novità la eccitano».
Sarah sprigiona voglia di vivere da tutti i pori: trovarsi in un Paese sconosciuto, ma tanto decantato dalla Letteratura anglosassone, ha per lei il sapore dell’avventura in cui tutto è da scoprire. Torino la affascina e inoltre, come ogni donna, è attratta anche dalle vetrine dei negozi del centro. Osserva i prezzi, calcola in sterline e poi afferma in tono scherzoso. «Qua ci porto Liam: gli dirò che se non vuole farmi sentire sola, deve comprarmi qualcosa. È un modo come un altro per rifarmi il guardaroba».
La neo signora Brady non avverte minimamente la difficoltà di inserirsi in un nuovo Paese di cui non conosce la lingua. «Sto imparando ad attraversare la strada senza finire sotto una macchina, in più so raggiungere il centro usando i mezzi pubblici. Quando poi avrò, la casa da arredare, allora sì che verranno i problemi. Fino a quando vivremo in albergo, starò come una regina».
«La casa che avevo visto in un primo momento – dice Brady – aveva una sola stanza da letto, mentre noi ne vogliamo perlomeno due. Altrimenti i parenti e gli amici che verranno dall’Inghilterra dove li metteremo?».
– Allora, Sarah, dovrai cambiare anche il tuo modo di cucinare, imparando a preparare le specialità italiane... «Devo proprio imparare a cucinare, perché io sinceramente non so neanche da che parte si cominci. Mi sono sposata a fine maggio, sono stata venti giorni in California, una settimana in Irlanda, dieci giorni in Spagna in viaggio di nozze. Quando siamo tornati a Londra, Liam era talmente preso dal suo trasferimento che mangiava qualsiasi cosa gli mettessi nel piatto. Ora il discorso cambia: dovrò comprarmi libri e libri di cucina, In compenso Liam è un ottimo cuoco, se la cava benissimo con le pentole».
– E con le faccende di casa in genere, come te la cavi? «Sono la più piccola di casa: col fatto che mi hanno sempre considerato la “baby” non mi sono mai occupata di nulla. Immaginarsi poi quando ho annunciato che mi sarei sposata! Mio fratello Richard e mia sorella Susy sono ancora “scapoli” mentre io a vent’anni mi sono già fatta “incastrare”. Che pazza, eh?».
– I tuoi genitori erano contenti del tuo rapporto con Liam? «I miei non avevano mai avuto una grande considerazione per i calciatori, dicevano che sanno ragionare solo con i piedi. Poi hanno conosciuto Liam e si sono ricreduti. L’importante per loro, poi, era che io fossi felice. Dopo tutto con Liam ci vivo io e non i miei genitori».
– Che cosa facevi prima di sposarti? «Lavoravo in un teatro come impiegata, ma non era un lavoro d’ufficio, era più di pubbliche relazioni. Mi divertivo moltissimo».
– Ora pensi di dedicarti totalmente ai nuovi compiti di casalinga? «Ma che cosa ho fatto di male per essere relegata fra le pareti domestiche? No, no, vuoi scherzare? Ottima moglie e discreta casalinga, questo sì, ma io voglia lavorare fuori, non voglio mica aspettare il ritorno di Liam a casa! Appena, me la caverò con l’italiano cercherò d’insegnare inglese in qualche scuola privata».
– Sarah, che tipo è Liam fuori dal campo? «È molto tranquillo, un casalingo senza particolari interessi. Ama molto ascoltare la musica, specialmente il folk e il rock, gli Eagles, Bob Dylan, i Rolling Stones. Guai a mettergli in disordine i suoi dischi!».
– Che cosa ti ha colpito di lui? «La bellezza», interviene Liam scherzando. «Oh no, la bellezza proprio no. La dolcezza».
– Com’è Liam prima di una partita? «Molto sereno. Lo è meno dopo una sconfitta».
– Che cosa ti ha raccontato di particolare nelle telefonate-fiume che ti ha fatto una volta giunto in Italia? «Appena arrivato a Villar Perosa mi ha telefonato in piena notte: Sarah, è bellissimo – diceva – mi han fatto un’accoglienza indescrivibile. Dovevi vedere i tifosi, mai visto gente così meravigliosa! La seconda sera invece mi ha detto: “Ora sono un vero italiano: conosco già tutte le parolacce”. Bel tipo, no?».
– L’hai trovato un po’ cambiato da quando è in Italia?«Sì, l’Italia, ma soprattutto la Juventus, gli hanno restituito una voglia di fare che a Londra aveva perso. È entusiasta, dice che non poteva capitare meglio di così. Prima di arrivare a Torino, poi, a Liam non interessava affatto la moda maschile. Adesso mi ha già detto che vuole comprarsi qualcosa di nuovo, è stufo di essere subito riconosciuto come straniero, e proprio per il modo di vestirsi. In più sta imparando a guidare all’italiana». ...«E sono un asso – dice Liam – a volte qualche mio compagno di squadra mi fa guidare la sua macchina. Sono bravissimo».
– Tuo marito ha una certa avversione per la stampa: perché?«No, Liam ha le sue simpatie: anche qua in Italia ha già inquadrato bene i vari giornalisti».
– E quando in campo scendono Irlanda e Inghilterra tu, Sarah, per chi fai il tifo?«Per l’Inghilterra, è chiaro. È successo lo scorso febbraio a Wembley: quando Keegan segnò, io saltai in piedi dalla gioia, mentre i vari tifosi irlandesi che sapevano che io ero la fidanzata di Brady mi guardavano disgustati. Ma Liam mi capisce... Non si può rinnegare la propria nazione. E poi ne sa qualcosa: è stato persino espulso dal collegio pur di non perdere un incontro con la rappresentativa irlandese!».
–Liam, che importanza ha Sarah nelle tue decisioni?«Lei è tutto per me: qualsiasi cosa io intenda fare, lei ne è al corrente e mi consiglia. Sarah ha una personalità molto più forte della mia, sa sempre come agire, soprattutto non è per nulla emotiva. È una vera sicurezza per me».
– Che differenza di gioco hai riscontrato fra il calcio inglese e quello italiano? «In Italia il gioco è lento, si porta molto la palla e si ha paura di scoccare tiri da fuori area. In Inghilterra non ci si risparmia mai, è un continuo arrembaggio».
– A quanto pare la Juventus ti ha conquistato... «Sono entusiasta, l’ambiente è favoloso, mi trovo perfettamente a mio agio. I miei compagni di squadra mi hanno aiutato e continuano tuttora a farlo. Mi sembra di stare con loro da sempre».
– Che cosa ti ha colpito maggiormente da quando sei in Italia? «Pensavo che gli inglesi fossero pazzi per il football, ma qui invece si vive proprio per il calcio, quotidiani sportivi a non finire, riviste di calcio a fiumi, giornalisti di tutti i generi, è straordinario. Ancora non riesco a leggere il contenuto degli articoli, ma comprendo i titoli: già da un mese non faccio altro che leggere il mio nome scritto a caratteri cubitali e penso ai poveri lettori che tutti i giorni sono costretti a sentire parlare di questo Brady. E poi mi hanno colpito tantissimo i tifosi con il loro calore, il loro entusiasmo».
– Dove arriverà questa Juve? «Spero il più lontano possibile: se la Juve andrà forte vorrà dire che anch’io avrò fatto la mia parte».
– E tu dove vuoi arrivare? «Mi... basta essere felice: qui a Torino, con Sarah».

Brady è un regista giovane, ma calcisticamente maturo; arriva in Italia con etichetta irlandese, ma rivela ben presto insospettate capacità di adattamento che gli consentono di inserirsi senza problemi nella squadra bianconera. Col suo arrivo nella Juventus ricompare il regista, giubilato da Trapattoni dopo la partenza di Capello e interpretato in seguito, seppure in modo anomalo, da Benetti e Furino.
Così la Juventus torna a una manovra ordinata, basata sulla ricerca di impostazioni logiche e razionali, anche se il ritmo non eccezionale dell’irlandese riduce in parte le accelerazioni. «Con quel sinistro potrebbe scappare di prigione», aveva scritto un reporter londinese, non privo di humour.
Investito nei primi giorni da una curiosità che sfiora aspetti morbosi, Liam si rifugia ben presto in un rapporto formalmente ineccepibile, ma che poco concede all’interlocutore. Soluzione necessaria e appropriata.
Ma ancora oggi, a distanza di anni, Brady è ricordato nell’ambiente torinese con ammirazione e simpatia. Anche per la sua vita privata Liam lascia nel ricordo tracce indelebili. Lo prova il fatto che, in perfetto accordo con la moglie Sarah, decide di far nascere a Torino la figlioletta Ella, che viene alla luce a metà gennaio 1983, quando l’irlandese già si trova a Genova, in quanto trasferito nell’estate precedente alla Sampdoria.
«Fu una fortuna, per lui, che fosse sistemato in camera, fin dal ritiro di Villar Perosa, col sacrestano delle rincorse, Furia Furino – racconta Caminiti – perché gli vennero insegnati gli stimoli alla lotta, perché riuscì a scaldarsi al fuoco dell’emulazione e cominciò a giocare alla grande, disimpegnando il suo piede mancino da vicino e da lontano, con sicura maestria. Certo, poco appariscente e, a voler essere obiettivi, spesso pigro nel corso della stessa partita: come Furia andava a soffiargli nelle orecchie con la sua voce grattata, Brady riprendeva la sua corserella, svelando doti di centrocampista di impulso ed anche di agonismo sicuramente superiori alla media».
Le due stagioni di Brady alla Juventus sono coronate dalla conquista di altrettanti scudetti. Trapattoni dirà che sono gli scudetti che sente di più come suoi, maturati nel rinnovamento di una squadra che comincia a perdere qualche grosso nome del passato (Morini, Benetti e Boninsegna) per dare spazio a giovani che si chiamano Cabrini, Farina, Prandelli, Marocchino e Galderisi, oltre al recupero di Virdis e alla progressiva affermazione di Brio. In quella squadra il sinistro di Brady, proietta di volta in volta i compagni verso il gol, lo stesso irlandese si segnala anche nei panni di goleador: 8 reti il primo anno, 5 il secondo.
Stupenda la prima stagione, anche se ci mette un po’ di tempo a prendere le misure; viene fuori il pomeriggio del 23 novembre 1980, mentre un terremoto squassava l’Italia del Sud. La Juventus gioca contro l’Inter campione in carica, con una formazione decimata dalle squalifiche volute da Agnolin, dopo un derby scandaloso. Liam segna un gol e un altro lo fa fare a Scirea. La squadra bianconera vince 2–1 e comincia, seriamente, a inseguire la Roma.
La seconda stagione è meno appariscente ma è suggellata, comunque, da un significativo finale. Il 30 aprile 1982, un venerdì, alla vigilia delle ultime tre giornate di campionato, Liam viene informato, all’improvviso, che non sarà riconfermato. «Preso Platini – racconta Giampiero Boniperti, sul suo libro “Una vita a testa alta” –, avevo un grosso problema. E un dispiacere enorme. Dirlo a Brady. Perché di stranieri ne erano consentiti soltanto due e noi avevamo già Boniek, preso in quegli stessi giorni. Brady, Boniek, Platini: uno era di troppo. Avessimo potuto tenerli tutti e tre, con Brady dietro a quei due, saremmo diventati la più grande squadra del mondo. Ho chiamato l’irlandese, dopo un’ora Liam era a casa mia: «Brady, abbiamo preso Platini. Mi rincresce». Pianse e un po’ di magone venne anche a me. A fine stagione venni contattato da Paolo Mantovani, presidente della Sampdoria, per discutere la cessione del centrocampista irlandese. Il reingaggio di Liam l’ho fissato io. E Mantovani fu d’accordo su tutto.
Ma di Brady non si può non ricordare l’ultima partita in maglia bianconera, il 16 maggio 1982, a Catanzaro, giorno in cui la Juventus conquista lo scudetto approfittando del concomitante pareggio della Fiorentina a Cagliari. Vince 1-0 la Juventus, con un rigore trasformato dallo stesso irlandese per fallo di mano sulla linea di Celestini, a seguito di un’ubriacante azione impostata da Fanna con deviazione di Rossi verso il gol. L’episodio accade a metà ripresa, con la Juventus accanitamente protesa verso la vittoria. Liam, rigorista designato, si avvia a battere dal dischetto come se non fosse l’ultima partita e l’ultimo rigore nella Juventus, con un grandissimo esempio di professionalità.
Il gol sancisce l’apoteosi bianconera ed è la rivincita morale di Brady. «Avevo due scelte, due possibilità: fare il professionista e calciare bene il rigore, oppure fare il bambino stupido e rifiutarmi di calciare o, peggio, sbagliare volutamente il tiro. Ho scelto di fare il professionista, ho tirato ed ho fatto gol».
«In quella cruciale domenica di Catanzaro – ricorda ancora Caminiti – toccò proprio a Brady battere il penalty decisivo, contro la squadra di casa, nello stadio infuocato di tifo contro. E segnò, con la gelida tristezza del professionista, confermandosi tra le figure più limpide del poco limpido calcio degli anni recenti».

1 commento:

Antonella ha detto...

Che professionista! Ancora oggi lo ricordo con immenso piacere...lo adoravo.