sabato 18 febbraio 2023

Roberto BAGGIO


«Non avevo nulla contro i bianconeri, è che volevo restare a Firenze. E poi la società fece un gioco non bello. Mi vendette senza dirlo. Io dicevo ai tifosi che non sarei andato via e un bel giorno scoprii che, tenendomi all’oscuro di tutto, mi avevano ceduto. Si faceva così, allora. Poi si dava la colpa ai giocatori che volevano andar via per soldi. Balle, almeno nel mio caso. Io volevo restare per gratitudine per la gente di Firenze. Per i primi due anni non ho giocato. Mi hanno aspettato e voluto bene. Come fai a dimenticarli?».
Caldogno è un piccolo paese alle porte di Vicenza. È stato fondato da Calderico Caldogno, consigliere militare di Federico Barbarossa. Diecimila abitanti, aria buona. Qui il 18 febbraio 1967 in via Marconi nr.3, alle ore 18:15, nasce Roberto Baggio. Il papà si chiama Florindo, la mamma Matilde. Sesto di otto fratelli: Gianna, Walter, Carla, Giorgio, Anna Maria, lui, Nadia, Eddy. Una grande e bella famiglia, molto sportiva. Il papà gioca qualche anno in una squadretta di calcio dilettanti, ma diventa ciclista. Florindo ama molto la bici.
Il più piccolo dei fratelli di Roberto si chiama Eddy in onore di Merckx. Ma non è l’unico nome “dedicato” a uomini dello sport: Walter si chiama come Speggiorin, attaccante del Vicenza. Giorgio è un omaggio a Chinaglia, centravanti della Lazio e della nazionale. E poi, lui, Roberto. Perché Roberto? Papà Florindo aveva due idoli: Boninsegna dell’Inter e Bettega della Juve. Quindi Roberto, come loro.
Roberto è un bambino esile e molto sensibile. «Piangevo quando sentivo passare le ambulanze».
Un po’ timido, il giusto. Abbastanza testardo, un malato di calcio. Gioca con tutto quello che trova: palline da tennis, carta bagnata e poi indurita sul termosifone. Gioca nel corridoio della sua casa, fa gol da solo (nella porta aperta del bagno), urla e poi si fa la radiocronaca. Per i suoi amici e subito Roby. Ma anche “Guglielmo Tell”, perché si allena a tirare le punizioni mirando i lampioni della strada. E li colpisce, inseguito poi dal maresciallo dei carabinieri.
L’allenatore si chiama Zenere, è il fornaio del paese. Il vicepresidente è l’idraulico. Sul Campetto c’è una scritta a grandi caratteri: «Chi non si presenta non giocherà mai più».
Roberto si presenta quasi sempre, gioca, si diverte e diverte tutti. E già un piccolo fenomeno. A Caldogno arrivano molti osservatori, lo prendono quelli del Vicenza. Nelle giovanili fa gol e assist: 120 partite, 110 reti.
Uno dei suoi primi maestri, Giulio Savoini, lo coccola: «Tu sei il mio Zico».
Va in panchina, in serie C1, a 16 anni. L’11 giugno 1983, ultima di campionato, Vicenza-Piacenza 0-1. Entra nella ripresa al posto del centrocampista Carlo Perrone.
Nella stagione successiva Bruno Giorgi lo inserisce in prima squadra. Incanta con la sua fantasia e i suoi tocchi “brasiliani”. Lo chiamano nelle nazionali Under 16 e Juniores. Due campionati in C1. Nel primo solo 6 presenze e 1 gol. Nel secondo, anno 1984, sempre con Giorgi, è titolare. Segna, dà spettacolo, è inseguito dagli operatori del calcio mercato.
Lo vuole la Samp di Mantovani, il presidente della Juve, Boniperti, lo sta per prendere. Ma s’inserisce il Conte Pontello della Fiorentina: ecco 2 miliardi e 700 milioni di lire. E fatta. Roberto ha 18 anni. Il 3 maggio 1985 due giorni dopo la firma gioca a Rimini (allenato da Arrigo Sacchi), segna il gol del Vicenza, poi si fa male. E un infortunio molto grave: rottura del crociato e del menisco della gamba destra. Un trauma terribile, rischia di non giocare più. Lo operano in Francia, intervento delicatissimo del professor Bousquet, il chirurgo dei campioni.
Momento molto difficile, la Fiorentina lo aspetta. A Firenze trova amici e comprensione, conosce i campioni del mondo Antognoni e Oriali. Ma Roberto non gioca, ha pensieri neri e disperati. Il massaggiatore Pagni gli insegna a non avere fretta.
Campionato 1986-87: primi sorrisi, primi gol. Debutta in serie A, contro la Samp di Roberto Mancini, magico numero 10. È il 21 settembre 1986. Sette giorni dopo, in allenamento, il ginocchio operato si spacca. Ancora in Francia, ancora operazioni. Altri tre mesi fermo, dolori e sconforto. Si riprende a fatica, rientra. Ma il destino è feroce: un’altra rottura, menisco. Torna in sala operatoria. Roberto ha solo vent’anni, è disperato e pensa: è finita, smetto con il calcio. Lo assiste mamma Matilde.
Roberto racconterà: «La mamma era il mio angelo. Quanto mi è stata vicina, quanto mi ha aiutato. In ospedale, dopo le operazioni, stavo malissimo. Non potevo prendere antidolorifici e il dolore mi trapassava il cranio. Una volta mi sono girato verso di lei, che mi stava accanto, e le ho detto: “Mamma, sto malissimo. Se mi vuoi bene uccidimi perché io non ce la faccio più”. Lei mi accarezzava: “Non fare lo scemo, eh? Dai dai, tornerai come prima. Più bello e più forte”».
Una mattina Roberto dice alla mamma: «Sì, torno e spacco tutto».
Torna, ce la fa, gioca. Segna a Napoli, nella città di Maradona. Primo scudetto di Dieguito e primo gol di Roberto Baggio. Scrivono: «Una magica punizione, alla Maradona».
Arriva la svolta, cambia tutto, la vita, il futuro, forse – scrivono – anche il destino. Roberto Baggio, con il suo calcio dal sorriso tenero e semplice, entra nel cuore della Fiorentina e dei tifosi di tutta Italia. Gli vogliono bene e lui ricambia con le sue meraviglie.
La Fiorentina lo porta in Nazionale, il primo gol contro l’Uruguay. Si sposa con Andreina, che conosce da sempre. «Avevamo 15 anni, abitava vicino a casa mia, veniva nella mia scuola. Andreina all’inizio ha fatto fatica ad accettare la mia fede nel buddismo. Venivamo da famiglie cattoliche. Non era facile capire, per lei. Poi, quando ha capito che la fede per me era importante, si è avvicinata e abbiamo pregato insieme. La fede mi ha aiutato molto nella mia carriera. L’allenamento spirituale al coraggio mi ha fatto sopportare il dolore. Avevo male, sempre male. Ma non importava. Sono stato male molti anni, ma sono andato in campo. Se avessi dovuto giocare soltanto quando stavo bene, con quella gamba, con quelle ginocchia, avrei fatto due, tre partite all’anno. E invece ho resistito, mi è andata bene. Molti miei amici sono stati più sfortunati e hanno smesso subito».
Roberto avanza con la sua classe, la sua poesia, è il sogno dei bambini. E dei grandi. Piace a tutti, va nella Juve che è stata di Sivori e Platini. Roberto lascia Firenze, ma l’amore per quella città e quei colori non finirà mai.
Gli diranno: eppure te ne sei andato. Risposta: «Non me ne sono andato, mi hanno mandato via. Pontello aveva preso accordi con Agnelli, mi avevano venduto un anno prima. Quando Berlusconi provò ad acquistarmi, Agnelli gli rispose che poteva accordarsi su tutto, ma che Baggio era già bianconero…».
La sua cessione nell’anno del Mondiale di Italia ‘90 scatena la rabbia dei tifosi viola: arresti, feriti, rabbia. Baggio è in ritiro a Coverciano con la Nazionale. L’atmosfera è elettrica, i tifosi contestano, il c.t. Azeglio Vicini fa chiudere il centro federale al pubblico. Roby cerca di concentrarsi solo sul Mondiale, convinto che arriverà il suo momento. C’è dualismo con Giannini, lui è un “dodicesimo di lusso”.
L’Italia gioca due partite, Roby non c’è. La gente e i critici lo invocano. Entra, in coppia con Schillaci, nella terza gara contro la Cecoslovacchia ed è subito spettacolo. Il 19 giugno 1990, a Roma, cominciano le “Notti Magiche”. Roberto segna uno dei suoi gol più belli.
Semifinale con l’Argentina: entra sull’1-1, sfiora un gol. Supplementari e rigori, Baggio segna, Donadoni e Serena sbagliano. Argentina in finale, Germania campione.
Dopo l’estate e le notti azzurre, ecco la Juve di Gigi Maifredi, un tecnico giovane che promette calcio nuovo e spregiudicato. E, soprattutto, divertente. Baggio con il 10 di Michel Platini è l’uomo giusto. Ma c’è il Milan di Arrigo Sacchi con il suo gioco moderno ed esaltante. La Juve non decolla.
In dicembre arriva la Fiorentina, Baggio è da poco papà, è nata Valentina. L’emozione e i ricordi viola lo bloccano. Molte polemiche. La Juve precipita in classifica. E poi c’è quella storia del rigore di Firenze. Roberto si rifiuta di batterlo e questo complica ancora di più i rapporti con i tifosi bianconeri. Qualche giornale scrive: «Baggio a Firenze era di Firenze. A Torino è di nessuno».
Quel rigore e quello slogan accompagnano per molti anni il suo percorso bianconero. La Juve richiama Giovanni Trapattoni. Costruisce una buona squadra, ma il Milan è travolgente. Roberto fatica, poi si sblocca, segna 18 volte e torna in Nazionale. Adesso il c.t. è Sacchi. Il Trapattoni-bis è un secondo posto.
Il nuovo anno consacra Baggio: 4 gol all’Udinese, 3 al Foggia, doppiette a raffica. Stagione eccellente: 21 gol. Adesso è al centro di tutto. Conquista tifosi, Agnelli, Coppa Uefa, il Pallone d’oro. «Quando a vincere erano gli altri mi limitavo a pensare: beati loro. Oggi non lo so proprio. Qualcosa di importante l’ho fatto, se in tanti mi hanno scelto deve esserci una buona ragione. E poi un premio non è mai l’espressione di un giudizio definitivo su un calciatore: sono i risultati che decidono. Se fossi arrivato secondo in Coppa Uefa, se non avessi realizzato 5 goal tra le semifinali e le finali, non parleremmo di queste cose. Da un lato il Pallone d’Oro è un meraviglioso compagno di viaggio e di avventura; dall’altro, rappresenta un peso, anche se questa mia valutazione può apparire scontata. Le responsabilità sono aumentate. Ora la gente si aspetta che io giochi sempre al massimo e che dia spettacolo. Il sempre, però, non è possibile. Paura? No di certo. A farmi compagnia c’è sempre il gusto della sfida, la voglia di dimostrare a tutti, anche a me stesso, che sono all’altezza».
Sul nome di Roberto Baggio vincitore del Pallone d’Oro sembravano d’accordo i critici sin dall’autunno, quando proprio da Parigi cominciavano ad arrivare le prime indiscrezioni sull’esito del referendum. E tuttavia Roberto aveva palesato le proprie perplessità. Questione, ovviamente, di scaramanzia: «Anche quando tutti sparavano titoli a nove colonne, io pensavo: Roby, attento, è in arrivo una fregatura. Spesso mi è tornata in mente la notte della finale bis contro il Borussia Dortmund: pioveva a dirotto, ricordate? Beh, anche in quella circostanza ho temuto che saltasse tutto. C’era una vocina dentro me che non stava mai zitta: per una volta che ti capita di vincere rinviano la partita. Le foto con il Pallone d’Oro le ho fatte con la speranza che il grande sogno si avverasse. Si è avverato, grazie al cielo».
Stagione 1993-94, un’altra buona annata, regala pezzi magici agli amanti del bel gioco. Esulta e poi festeggia l’arrivo di Mattia, il secondogenito, va in America con Sacchi ai mondiali. Un sogno e un incubo. «Sacchi mi è stato vicino in un periodo nero. Per tre mesi ho giocato con uno stiramento. Non mi riconoscevo più. Poi a Foggia, contro Cipro, c’è stata la partita della svolta. Lì sono uscito dal tunnel».
Roberto ha 27 anni, porta il codino, è Pallone d’oro, è titolare indiscusso della Nazionale. È concentratissimo e si prepara in segreto prima della partenza per gli Usa. Racconterà: «Non l’ho detto a nessuno, nemmeno a Sacchi».
Il c.t. gli dice: «Roberto tu, per l’Italia, sei come Maradona per l’Argentina: fondamentale».
Contro la Norvegia, il portiere Pagliuca è espulso e Sacchi fa entrare Marchegiani e toglie Roby. La reazione di Baggio è clamorosa, fa un gesto a Sacchi: «Questo è matto».
Il Mondiale americano di Baggio è un tormento. Gianni Agnelli lo stuzzica da lontano: «Sembra un coniglio bagnato».
Roby reagisce e segna con Nigeria, Spagna e Bulgaria e porta in finale l’Italia con il Brasile. Pasadena, 17 luglio, ore 12:30, caldo torrido. 0-0, supplementari, rigori. Sbagliano Franco Baresi e Roberto Baggio, i due più bravi rigoristi italiani, e il Brasile è campione. Pazzesco! Baggio dirà: «Nella mia carriera ho sbagliato dei rigori, ma non li ho mai calciati alti. Quella è stata l’unica volta che mi e successo. Ed è difficile riuscire a spiegare perché è andato là. Non lo so. Però è successo, fine. Sognavo quel giorno da bambino. E un sogno che s’infrange, che si rompe sul più bello e diventa un incubo».
Il suo maestro spirituale Daisaku Ikeda, l’aveva previsto: «Quel Mondiale lo vincerai o lo perderai all’ultimo secondo».
La stagione 1994-95 sarà la sua ultima in bianconero. C’è Marcello Lippi, Roby si fa male e va in panchina o in tribuna, avanza il giovanissimo Alessandro Del Piero. La Juve vince lo scudetto, grazie anche ai gol e agli assist di Baggio nella prima parte della stagione. Fa festa con la Juve, ma quella non è più la sua Juve.
Finisce sul mercato, lo seguono in tanti, lui sceglie il Milan (che lo aveva cercato cinque anni prima). Spiega: «È il club che mi ha voluto di più e me lo ha fatto capire meglio».
Il grande Milan di Capello vince, dopo una stagione di pausa, ancora lo scudetto. Per Fabio è il quarto in cinque anni, per Roby il secondo di fila con due squadre diverse. Una bella stagione, i tifosi rossoneri, subito in sintonia con il Divin Codino, lo eleggono giocatore dell’anno, anche se è spesso sostituito.
Il secondo anno rossonero è segnato da Oscar Washington Tabarez, uruguaiano. Tabarez fallisce, è esonerato. Al Milan torna Arrigo Sacchi. Va tutto male e Baggio soffre la panchina. A fine aprile 1997, Cesare Maldini lo riporta in Nazionale. A Napoli, Italia-Polonia, valida per le qualificazioni ai Mondiali 1998. 3-0: lui segna un gol splendido.
Arrivi e partenze al Milan. Torna Capello, lascia Baggio. Per lui non c’è più spazio. Si arriva, anche con il Milan, alla separazione consensuale. In estate, un anno prima del Mondiale in Francia, Baggio sembra finito. Non è così.
La nuova destinazione, Bologna, lo riporta in corsa. Il suo obiettivo principale è sempre la Nazionale, forse la sua unica e vera maglia. Cesare Maldini lo richiama in azzurro. Bologna è un momento positivo e importante. I rapporti con l’allenatore Renzo Ulivieri non sono semplici, ma il bilancio personale di Baggio è strepitoso: 22 gol, il suo record in A.
Prenota Francia ‘98. Il c.t. Maldini è raggiante. Con un Baggio così… Dovrebbe essere lui il titolare. Ma c’è Del Piero (21 gol in campionato) che reclama una maglia. Il Mondiale francese è segnato dal dualismo Baggio-Del Piero. Ma è una nuova delusione. Roberto segna contro il Cile e l’Austria, sfiora il Golden gol contro la Francia ai quarti. L’Italia esce ai rigori, battuta dai francesi.
E Baggio si rimette in viaggio. Nell’estate 1998, dopo una sola stagione, lascia Bologna e torna a Milano, stavolta all’Inter. Due campionati nerazzurri tormentati da molti infortuni (Ronaldo su tutti) e dai troppi cambi di panchina (Simoni, Lucescu, Hodgson, Castellini, Lippi). Roby non riesce a dare il massimo. Da ricordare i due gol in Champions al Real Madrid campione d’Europa. Poi, altri buoni colpi, emozioni ma – soprattutto – scontri con Marcello Lippi.
Nell’estate 2000, Gino Corioni, presidente del Brescia, lo convince: «Vieni da noi».
Baggio incontra Carlo Mazzone, un bellissimo rapporto di stima e amicizia. Sor Cadetto lascia Roby libero di inventare. E allora arrivano i gol in un Brescia che fa ruotare Toni, Di Biagio, Pirlo e Guardiola. Baggio si ritrova in testa alla classifica dei marcatori, con 8 gol nelle prime 9 giornate.
Sogna il Mondiale con la Nazionale (c’è Trapattoni alla guida) in Corea e Giappone. Ma il destino lo ferma: cede il ginocchio sinistro. La riabilitazione è da record, ritorno in campo dopo 76 giorni, in tempo per segnare 3 gol nelle ultime 3 partite. Ma Trapattoni non lo può più aspettare.
La delusione è grande, ma Roberto decide di andare ancora avanti. Gioca altri due anni, taglia il traguardo dei 200 gol (poi saranno 205). Un’ultima passerella azzurra a Genova con la Spagna. Il 16 maggio 2004, a San Siro, la “Scala del calcio”, si conclude la luminosa carriera del violinista Baggio: la gente canta e balla per lui. E un grande abbraccio a uno dei campioni più amati.
La Gazzetta titola: «Sei stato un mito, sei stato Baggio».
Lucio Dalla, poeta e cantautore, dice: «A veder giocare Baggio ci si sente bambini… Baggio è l’impossibile che diventa possibile, una nevicata che scende giù da una porta aperta nel cielo».
Se ne va. L’anno dopo nasce Leonardo, il terzo figlio. Poi, dopo un lungo periodo di riflessione, torna. A Coverciano, dove ha vissuto una vita azzurra. Ha preso il posto di Azeglio Vicini, il suo commissario tecnico a Italia ‘90. Riparte dall’azzurro.
Baggio è stato di tutti e di nessuno. O forse è stato solo una magia azzurra, come quella porta nel cielo.


3 commenti:

Enzo Saldutti ha detto...

Roberto Baggio un talento assoluto capace di tutto abbinando a una tecnica eccezionale una straordinaria facilità nel realizzare marcature di stupefacente bellezza in ogni maniera. Giocava a tutto campo in possesso di un dribbling fenomenale o da fermo o quando partiva da lontano beffando nugoli di avversari con movenze di strabiliante grazia.

Fabio ha detto...

baggio talento assoluto e persona per bene.
Faceva vincere squadre improponibili da solo ( vedi juventus di lippi o italia di sacchi) e aveva una classe infinita.
E' una persona seria che non si piega ai giochetti e quindi alcuni allenatori non lo sopportavano. Un esempio è Lippi, che voleva fare la prima donna e voleva gestire lo spogliatoio a suo piacimento.
DI Baggio rimane una carriera fantastica, considerando i suoi guai fisici. Non a caso è stato uno dei pochi palloni d'oro italiani della storia.

Anonimo ha detto...

Roberto Baggio, è stato un campione del calcio italiano, punto. Oggi lo possiamo dire ancora parecchio di più rispetto a prima: è un campione che manca poiché raramente ne vediamo altri per la velocità delle sue azioni tecnica spesso in goal e per la visione di gioco unica perché prima di tutto è uno che sapeva guardare in campo; sapeva guardare anche fuori dal campo, chi avrebbe i coglioni di mostrarsi alle telecamere così sincero come lui quando, malcontento di traferirsi a Torino, era campione di gesti impulsivi nei confronti dei suoi nuovi tifosi che solo un Baggio avrebbe potuto permettersi. Lui era Roberto Baggio e secondo me avrebbe dovuta dirla tutta sui retroscena che facevano tanto storcere il naso alla sua sensimilità, è a Torino, è a Milano dopo, il fatto che abbia taciuto nonostante il palese malcontento e le panchine incomprensibili per tutti i tifosi del Milan anni dopo, soprattutto in una squadra al collasso, non lo ha spinto all'olimpo dei calciatori più del rigore sbagliato negli Stati Uniti, perché se avesse parlato lui sarebbe stato indimenticabile per il calcio italiano.
Tifoso per lo sport: quello vero. Ciao!