lunedì 17 luglio 2023

Umberto MALVANO


Nato a Moncalieri il 17 luglio 1884 – ricorda Renato Tavella – figlio di Alessandro, assessore della città di Torino, spicca trai ginnasiali del D’Azeglio come uno dei promotori più accalorati all’idea Juventus. Nel gioco si distingue come abile avanti e milita da titolare fino al 1904. Partito per il servizio militare, non partecipa alla vittoria del primo campionato. Invitato in quel periodo a giocare nel Milan, con i rossoneri vince il titolo 1906. Tornato a casa, ritorna a vestire la maglia bianconera fino allo scoppio della Grande Guerra. Negli anni Venti viene nominato tra i vicepresidenti della Federazione Gioco Calcio.

VLADIMIRO CAMINITI, DA “JUVENTUS 70”
Il passato acquista, a distanza di sessant’anni, una dimensione fiabesca. Bino Hess celebra la democrazia della prima Juventus come simbolo del suo spirito sociale.
Invece Umberto Malvano si fa mescere dalla consorte i liquori preferiti e si abbandona all’empito lirico.
Chi è Malvano?
Oggi è un ometto tondo e liscio. Ha occhietti azzurri e tersi. Vive in uno spazio estraneo alle lotte quotidiane, all’evolversi del mondo. Una scossa di terremoto che squarciasse il pavimento del quarto piano della sua casa di Piazza Sant’Agostino a Milano lo vedrebbe precipitare nell’abisso col sorriso sulle labbra.
Malvano è un vecchietto diabolico.
Perfettamente superfluo tutto nella sua vita, non la moglie anch’essa juventina con tanto di tessera degli anni d’oro. Superflui studi e letture, passeggiate e viaggi.
La Juventus non è stata superflua ma sostanziale. Con la Juventus il Milan, ma non ammette che si avanzi il sospetto. E invece il Milan partecipa al suo empito lirico. Il suo empito lirico è musicale.
Ci guarda con occhietti di vellutata soddisfazione terrena e canta:

Per il gioco del football
poche doti sol ci vuol
posseder buon colpo d’occhio
pantalon corto al ginocchio
gamba lesta molto fiato
un po’ di english bestemmiato
e se il resto anche non c’è
lo si mette col toupé.

Il toupé?
Amico mio non si distragga…
E mi faccia un favore. Legga.
È seduto in poltrona, vestito di blu, inforca un paio di occhiali. Con un sorriso trionfante cava da una tasca quattro fogli dattiloscritti. Li sventola. Con la vocetta dei nani amici di Biancaneve ordina alla moglie – una signora ben conservata e assai simpatica – di riempire il suo e il mio bicchiere. Eseguito.
Mi faccia un favore, legga.
«Abbiamo letto la chiara smentita che ella ha dato alle voci nuovamente ricorrenti di una fusione col Torino. Dio sia lodato! Speriamo che non se ne parli mai più…»
Interrompo la lettura. Faccio notare che sono venuto per sentire da lui la rievocazione della Juventus pionieristica.
Non si allarma. Sorride.
«Intanto legga, non c’è fretta, ogni cosa a suo tempo…»
Proseguo nella lettura.
«Per noi che da tanti, tanti anni, ci sentiamo orgogliosi dei nostri colori sarebbe stato come se la Juventus, nostra amorosa madre sportiva, abbandonasse noi “suoi figli di sempre” per sposare uno sconosciuto, che non potremmo mai, assolutamente mai, amare neanche in minimissima parte: La preghiamo tanto: ci preservi da così grande jattura e voglia scusare questo sfogo dettato dal cuore…»
Torno alla carica specificando la ragione del mio viaggio. Non si allarma, sorride e risponde:
«Introduzione al tema. Ogni cosa a suo tempo…»
«Ma lei ha giocato nella Juventus?» Chiedo malignamente.
Attacca a cantare.

Dare i calci avanti indietro
sì così così così
sbagliar gol d’un solo metro
sì così così così.
Imparar bene l’ofsay
questo mai poi mai poi mai
e se il referee dà torto
fare il morto il morto il morto.

Canta beatamente. Io coi fogli del suo discorso tra le mani (facciamo un bel quadretto). La signora Malvano mesce altro liquore.
«Ma non ha ancora bevuto niente! Guardi mio marito quant’è arzillo! E guardi qui. Questa era la mia tessera!»
«Anche lei bianconera, signora?»
«Si capisce…»
«La conobbi alla Juventus. Seguiva tutte le trasferte. Era dama patronessa. Fummo insieme anche a Losanna. Non sa di Losanna?»
«No, non so di Losanna… Mi dica lei… Andò con la Juventus a Losanna?»
«Sì, con la Juventus…»
«Lei in che molo giocava?»
«Ala sinistra…»
«Giocava bene?»
«Ah, come giocavamo!»
«Correvate tutti dietro il pallone?»
«Macché! Giocavamo molto bene… Avevamo ottimi maestri inglesi…»
«Me ne ha parlato Hess».
M’interrompe brusco. Sorride.
«Hess… Una riserva… Venne poi in prima squadra… Non può sapere… Glielo dico io… Triangolazioni perfette assolute rasoterra al centro o alla mezzala. Facevamo gli allenamenti al Motovelodromo mettendo le sedie come ostacoli. Una specie di slalom col pallone. Era utilissimo. Ogni giorno, finito lo studio o il lavoro, andavamo a correre un’ora a Piazza d’Armi… Avevamo un fiato che non finiva mai…»
«Ma come nacque la Juventus?»
«Mio papà era sindaco di Torino…»
«…Interessante…»
«Al tempo di Voli…. Pure assessore alle finanze, era un personaggio della grande Torino…»
«Ma i compagni di gioco? Se li ricorda?»
«È difficile, è difficile, non stanno mica dietro la finestra… Io ho smesso di giocare nel 1916. Cinquanta anni fa… Quasi tutti sono morti…»
Dice sua moglie, con atteggiamento sospiroso.
«Quanti begli amici sono morti, mio Dio!»
Ed esce dalla stanza in compagnia del suo sospiro.
«La memoria ci tradisce quando si è vecchi… Ed io sono vecchio…»
Sorride.
«Però certe cose non si possono dimenticare del tutto. Eravamo studenti di seconda e quarta ginnasio… Ci trovavamo all’uscita del D’Azeglio e tutti i giorni si andava a correre e a giocare alla “barra” in Piazza d’Armi… Giocavano al football alcuni inglesi impiegati in fabbriche di pizzi e tulli… Anche degli svizzeri… Il gioco ci piacque, mettemmo cinquanta centesimi l’uno per il primo pallone…»
«Hess mi ha detto che lui versò dieci lire…»
«Lui effettivamente stava meglio quanto a soldi… Il pallone ci costò dodici lire…»
«Hess mi ha detto che costò sessanta lire…»
«Davvero? Costò invece dodici lire, lo fece venire Mister Savage, un bell’uomo, giocava veloce, era mezzala sinistra. Lo fece venire da Nottingham, il club dove aveva giocato. Era il 1896. Eravamo bambini. Avevamo dieci anni. Tutti i giorni giocavamo alla barra…»
«E cantavate quella canzone?»
«La cantavamo dopo… Sul motivo della Vedova Allegra… La nostra prima divisa comprendeva una camiciola rosa, di tela… C’era Guido Botto, campione italiano di velocità, c’era Luigi Gibezzi, è morto l’anno scorso a Milano, un ingegnere, era stato per lavoro in America, non poteva più camminare. Era alto un metro e ottantacinque, era biondo e con gli occhi azzurri. Ogni volta che mi incontrava mi faceva una grande festa, e poi mi dava pacche sulle spalle, e mi voleva abbracciare… Ricordi che bei tempi, ricordi? Gridava. C’era il terzino Chapiron, studente, c’era Gioachino Armano. In seconda linea c’erano Varetti, Goccione, Diment. Poi c’era Luigi Forlano, il centravanti, era un toro. Poi c’ero io… E il futuro generale Ferrero… Un grand’uomo… I primi tempi giocavamo in Piazza d’Armi… Duecento o trecento persone come spettatori. Tiravamo una corda tutt’intorno. La porta era fatta con due pali e una corda tesa alla quale attaccavamo una striscia di tela perché si vedesse… Così giocavamo nel 1897… Ci riunivamo nell’officina dei fratelli Canfari in corso Re Umberto…. Dietro l’officina c’era una stanza abbastanza grande con sedie e panche… I fratelli Canfari fabbricavano biciclette… Mi ricordo come fosse ora… Un cancello, una porta… E lì fu deciso il nome… Si discusse per ore… Mi ha fatto parlare troppo… Ora legga, ora legga…»
Sorride e beve.
Leggo.
«Cosa posso dirvi di nuovo su quei tempi che sanno quasi di leggenda tanto sono belli e lontani? Ad esempio potrei dirvi della nostra missione pionieristica per la diffusione del nostro amato gioco: diffusione gioconda ed entusiastica; potrei narrarvi i nostri viaggi goliardici con i nostri cori scanzonati; potrei dirvi gli scherzi, le burle, la fresca allegria di quel gruppo di giovanissimi che trovava già un poco anziano il nostro primo presidente che aveva appena vent’anni. E sono di quei primi tempi le canzoni più suggestive: per esempio, il canto del Montriond (Losanna) trasformato in bianconero o le parole famose della Vedova Allegra…»

Per il gioco del football
poche doti sol ci vuol
posseder buon colpo d’occhio
pantalon corto al ginocchio.

È estasiato.
Canta anche sua moglie.
Sorride.
Su questo sorriso si può ricamare. Un po’ è il sorriso della vecchiaia, un po’ il sorriso dell’ultimo pioniere. Qualcosa di estatico e struggente come trecce bionde, come cavalli lanciati nel sole, come la poesia di Gozzano… Tutto ciò in un sorriso, anche la farsa, il tradimento, la conquista di Milano; il calcio nei primi del Novecento è Genova, Milano, Torino, con rare infiltrazioni vercellesi o alessandrine; gli svizzeri giocano meglio di noi, gli inglesi ci insegnano tutto, scendono dalle navi e insegnano. La Juventus è una squadra democratica che alterna nei primi anni i presidenti, i due fratelli Canfari sono i primissimi, poi uno dei ragazzi della panca di Corso Re Umberto, si chiama Favale e firma la tessera del campione italiano delle riserve, studente in chimica, Ettore Corbelli.
Umberto Malvano va militare a Pavia, nel Genio. Mi racconta che lo avvicina uno del Milan.
«Chi me lo fa fare ad andare tutte le domeniche a Torino? Ero libero di decidere e gioco nel Milan. Cosa succede? Succede che debbo giocare contro la mia Juventus…»
Memorabile sfumatura di sorriso.
«Non può immaginare quello che provai… Più di un’emozione… Io ero un forte giocatore, quella volta non valevo niente… Si giocò quella partita del 1906 che poteva garantire lo scudetto al Milan al campo del Velodromo… Sbagliai un goal tutto solo davanti a Durante per l’emozione… Mi tremavano le gambe… I compagni mi accusarono di averlo fatto apposta… Nella partita successiva non giocai… Il Milan vinse quel campionato proprio contro la mia Juventus, ma io non c’ero…»
Malvano sorride, e si bea del suo sorriso. Ha ripreso possesso dei suoi fogli dattiloscritti. Non potrà mai separarsene. Sono passate due ore che sto nel suo appartamentino grazioso come una stanza di bambini; la signora Mary entra ed esce con le sue bottiglie di liquore; ogni tanto arriva un giovinotto che dev’essere uno dei nipoti della signora Mary o del dottor Umberto. La signora Mary era patronessa e questo mi fa pensare a fiumi di champagne e a dolcissimi valzer… Così dovettero conoscersi… Oppure cavalcando un pomeriggio al Valentino… Chissà… Certo la signora Mary è di una grande famiglia torinese, la famiglia Dalmazzo, anch’essa benemerita juventina.
Con un sussurro di voce Malvano mi informa della cosa più delicata, l’attività federale.
«Deve sapere che per molti anni, fino al 1915, sono stato vice presidente della Federazione e ci fu molto lavoro. Il presidente era l’avvocato Bozzino della Pro Vercelli. I vice presidenti eravamo io e l’ingegner Francesco Mauro… Si lavorava tutta la settimana, certe volte si andava a letto alle quattro del mattino, lavorammo per uno scandalo, si erano fatti pagare…».
Sorride con una sfumatura di superiorità garantita. Mi pare di intuire che quello scandalo fosse stato da lui svelato.
«Mi raccomando, non imbratti la storia con questi fatti… Giuri che non scriverà niente…»
Tace, si guarda intorno…. Sua moglie è uscita dalla stanza. Sussurra.
«C’erano anche allora degli sportmen che si facevano corrompere… Io fui incaricato di condurre l’inchiesta e andai fino in fondo… Confessarono e furono squalificati… Il presidente del Genoa Davidson, un vecchio grassone, era furibondo… Non sapeva niente… Ma non potevo transigere…»
Sì, dottor Umberto, ha ragione. Non bisogna transigere con i professionisti!

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